E’ domenica. Il profumo di cibi succulenti invade la casa e mi riporta indietro nel tempo, alle domeniche che si trascorrevano dai nonni, nella casa misteriosa e fantastica dove ogni stanza era un tesoro da scoprire, da annusare e imprimere nella memoria.
La domenica dai miei nonni aveva il sapore delle tagliatelle al ragù di carne, di programmi di cucina trasmessi sulla rete nazionale, di odore di pulito ma di conservato, delle tovaglie più belle e più grandi. Di disposizione precisa di piatti, bicchieri e posate, del portatovagliolo rotondo del nonno e dei suoi rituali.
La sua eleganza di altri tempi, signorilità che non era costruita solo per noi ospiti o solo per quel giorno, no. Era autentica, insita in ogni suo gesto, movimento , atteggiamento. Portava il foulard legato al collo perfettamente abbinato alla veste da camera e alle pantofole ( perché era domenica e con i figli e i nipoti gli era concesso portarla!) .
Sotto la vestaglia si intravedeva la camicia bianca e il pantalone beige con le pence. La cintura alta in vita. Era molto magro. Ricordo bene le sue dita ossute e nodose intente ad ordinare la tavola. Tutto doveva essere necessariamente al suo posto, assolutamente in fila e secondo una logica, quella militare a cui ormai apparteneva la sua mente, suppongo.
Mio nonno era un colonnello dell’arma dei carabinieri.
Lo osservavo in religioso silenzio. Si sedeva, prendeva il tovagliolo con una mano e con l’altra lentamente toglieva l’anello e lo posizionava a destra del piatto utilizzandolo come supporto di una piccola mela verde. A sinistra una ciotolina ospitava qualche oliva che lui assaggiava prima di pranzo con una fettina di pane e due dita (rigorosamente 2, mi raccomando!) di vino rosso. Era diabetico, ma forse la domenica era il suo giorno di riposo dalla perpetuata dieta. Dopotutto era giorno di festa.
Confesso che provavo un po’ di soggezione a pulirmi su un tovagliolo di stoffa cosi bello, profumato e ben stirato, ma nello stesso tempo , in quella realtà ordinata ed elegante, mi sentivo come una principessa e mi veniva naturale assumere un atteggiamento da “signorina della buona società”.
Mi incitava a tenere dritta la schiena, a posare il tovagliolo sulle ginocchia, a non stare con i gomiti a tavola, a discorrere delle condizioni metereologiche, a fare complimenti sui cibi gustosi preparati dalla nonna; a lei sempre e solo andavano tutti gli onori.
Al termine del pranzo e dopo le sue “due dita” (sempre due soltanto!) di Fernet Branca, seguivo il nonno nella stanza della musica: un piccolo studio che era il suo regno. Una stupenda libreria in legno intarsiato con le ante in vetro conteneva moltissimi classici rilegati in pelle. Accanto un piccolo tavolino rotondo con una lampada a motivo floreale illuminava quel tanto per creare un’atmosfera intima; una poltrona in tessuto chiaro con le frange in basso, un grande tappeto persiano, un settimino in legno e marmo in un angolo e al centro della parete un Grundig anni ‘70.
Con gesti lenti e misurati apriva il mobile, accendeva la lucina interna che illuminava il giradischi e le custodie dei 33/45 giri lì accanto, sceglieva un disco – solitamente un’opera italiana come Verdi o Puccini, o musica per bande (da giovane faceva parte di una banda musicale nel suo paese)- posizionava il vinile ed azionava la rotazione. Un panno rosso morbido a pulirlo mentre girava e... “Shhh” , faceva segno col dito. Annuivo. Silenzio. Lo stridere del suono della punta sul vinile e poi la magia…la musica. Chiudevamo gli occhi lui dalla sua poltrona con le frange, io dal grande tappeto persiano, e ci sentivamo a teatro, tra i suoni degli strumenti musicali dal vivo e il battito di mani guantate.
Mi riposavo la domenica a casa dei nonni.
Il tempo era più lento e facevo lunghe dormite nel lettino della cameretta accanto alla cucina. Mi sentivo in pace in quel mondo surreale. Quella pace che non c’era durante la settimana. Andarmene era triste.
Ancora adesso dopo molti anni mi basta un suono e un profumo per ritornare indietro e provare gli stessi sentimenti: serenità, malinconia e la domenica sera, l’ansia del giorno che verrà.
Mi saluta ancora sull’uscio della porta con una mano nella tasca della sua veste da camera. Alle sue spalle la luce fioca delle applique in ottone all’ingresso. Il suo sorriso accennato e sereno. Ricambio con la mano.
Oggi voglio essere la calda luce che avvolge la casa, l’aroma di un dolce appena sfornato, il desiderio di tornare dopo una giornata faticosa e la consolazione dell’abbraccio, di essere al sicuro.
Come se fosse sempre domenica. La domenica dai nonni.
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